Sostenibilità - Intervista
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Diritto e certificazioni accreditate: sinergie a tutela di cittadini e imprese

 

Francesco Bruno approfondisce da una prospettiva giuridica l’impegno delle imprese in mercati sempre più complessi e il ruolo dell’accreditamento per la sicurezza alimentare e ambientale e la gestione del rischio, anche a garanzia della collettività.

Con l’Avvocato Francesco Bruno, Professore ordinario di Diritto ambientale e alimentare all’Università Campus Biomedico di Roma e partner di B-HSE, parliamo del peso delle prove e delle certificazioni accreditate in sede di contenzioso, in ambiti come il rischio ambientale e alimentare, oltre che delle sfide del multilateralismo per il commercio internazionale.

Lei fa parte del Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare del Dipartimento del Ministero della Salute. Che attività svolge e qual è il collegamento con l’accreditamento delle prove di laboratorio?

Il CNSA svolge un ruolo di coordinamento con l’Ente europeo di gestione della sicurezza alimentare, la European Food Safety Authority. Ciò mi ha consentito di conoscere i meccanismi di funzionamento delle certificazioni più importanti nel mondo dell’alimentazione e della nutrizione.

Un ambito in cui l’accreditamento è fondamentale, direi che è presunzione di legalità, è la nicchia della percentuale di rinvenimento di pesticidi nell’alimentazione, collegato alle autovalutazioni effettuate da tutti gli operatori alimentari attraverso il metodo HCCP. Qui la visione e la certificazione a livello europeo, perché ripeto il CNSA opera a livello di rete europea, assume sempre di più un ruolo fondamentale.

In questo contesto, occorre premettere che le imprese hanno come proprio DNA economico-manageriale quella che si definisce un’obbligazione di mezzi rispetto alla sicurezza alimentare e alla sostenibilità ambientale: non devono garantire il prodotto finito, ma che il processo riduca i rischi collegati alla gestione degli alimenti e agli eventuali danni ambientali, a livelli residui o minimali.

Questa è la logica del rapporto giuridico tra accreditamento, certificazione, attività d’impresa, sicurezza alimentare e sostenibilità ambientale.

Un tema attuale e critico è la contaminazione delle matrici alimentari da PFAS, in cui dal 2026 si applicherà l’accreditamento. In questo contesto, qual è, e come si è evoluto, il peso delle prove accreditate in sede di contenzioso?

I cosiddetti PFAS presenti nelle acque sono sostanze dichiarate nocive per la salute, ma ci sono voluti anni affinché fossero fissati limiti restrittivi e ben delimitati. L’Unione europea è in questo senso all’avanguardia rispetto ad altri Paesi, e a gennaio 2026 entreranno in vigore limiti più stringenti.

Qui emergono profili tecnici collegati all’accreditamento, perché i PFAS sono presenti in nanogrammi per chilo e vi è ancora un’incertezza piuttosto elevata nelle misurazioni. Dei circa 900 laboratori che effettuano analisi della qualità delle acque, in Italia solo una minima parte è accreditata sui test per PFAS e, questa, rappresenta una sfida rilevante, perché in questi casi l’accreditamento è presunzione legale di veridicità del dato.

Un esempio a cui riferirsi viene dall’acquacoltura: inizialmente i laboratori accreditati sul prodotto, sul processo e sulla qualità delle acque erano pochi, ma sono cresciuti moltissimo. Oggi le certificazioni e i metodi HACCP dell’acquacoltura prevedono l’accreditamento come presunzione legale di qualità necessaria per la commercializzazione.

Può ipotizzare il ruolo delle certificazioni accreditate nella gestione del rischio aziendale e come elemento di prova nei contenziosi climatici?

La questione dei cambiamenti climatici, del collegamento fra attività produttiva, rischio d’impresa e giustiziabilità, ovvero l’effettiva applicazione delle pene in caso di violazione di norme, è centrale.

A livello europeo, il tema si collega con l’entrata in vigore della Direttiva sull’obbligo di diligence ambientale, la CSDDD, che impone alle imprese di effettuare una diligence sui fornitori, anche esteri, per far sì che rispettino le normative internazionali. In questo contesto, certificazioni e accreditamento rappresentano passaggi fondamentali di semplificazione e di trasparenza dei meccanismi di controllo.

A livello globale, non si può fare a meno di un punto di riferimento unitario, anche perché vi è un andamento che porta a una prevalenza delle norme privatistiche di autovalutazione, che valgono come prova davanti alle Corti, rispetto alle normative statali o internazionali.

Recentemente l’Antitrust ha comminato varie sanzioni per pratiche commerciali scorrette. Quali sono le difficoltà delle imprese nel rispettare la normativa e che ruolo potrebbero avere le certificazioni accreditate nel contrastare il greenwashing?

La questione è che, per quanto riguarda l’utilizzo delle normative in questi ambiti, si è nelle mani del buon senso. Nel momento in cui dovesse esservi una violazione della normativa sul greenwashing, ad esempio, le sanzioni non scattano automaticamente: vi è l’interpretazione delle Autorità nazionali o europee (nel nostro caso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o Antitrust) nel valutare se vi sia stata violazione diretta o indiretta delle regole di trasparenza.

Si procede quindi per equità ed è qui che meglio possono intervenire le certificazioni di sostenibilità offrendo parametri oggettivi. Proprio perché, a differenza dei PFAS o del settore alimentare dove vi sono parametri legali chiari, qui ci si muove sul buon senso verificato dall’Autorità pubblica.

Senza parametri di riferimento, anche processualmente diventa complesso procedere. Il valore delle certificazioni e dell’accreditamento, che devono garantire trasparenza, autonomia e imparzialità, è quindi determinante.

Spostando lo sguardo al commercio internazionale, l’amministrazione USA ha segnato un cambiamento rilevante nell’orientamento protezionistico degli Stati Uniti. Come si muovono le imprese?

Il rapporto di import/export con gli Stati Uniti è molto complesso e va oltre l’attuale fase di scombussolamento geopolitico sui dazi. Se voglio importare negli Stati Uniti, o apro uno stabilimento sul loro territorio oppure opero all’estero in un Paese che garantisce standard internazionali di sicurezza. In tal caso, come azienda europea, devo comunque ricevere la visita di un certificatore accreditato presso la Food and Drug Administration pagandone i costi periodici per poter esportare.

Il principio di territorialità, secondo cui il diritto si applica dove avviene l’atto, in questo caso la produzione alimentare, non vale: le regole della produzione europea sono conformate dal diritto nordamericano che determina di fatto una extra-territorialità.

Anche l’Unione europea sta imponendo regole simili a livello doganale per l’esportazione dei propri prodotti. Pertanto i rischi e il comportamento delle imprese sono equiparabili, anche se la stagione dei dazi non interromperà i flussi globali di merci e prodotti: le imprese dovranno continuare a ragionare in una direzione in cui accreditamento e certificazione avranno un ruolo determinante.

Guardando in prospettiva, quali sono le principali sfide normative e giuridiche nel campo della sostenibilità, delle certificazioni accreditate e del rischio legale per le imprese?

Io ne vedo due. Una coinvolge l’accreditamento e la certificazione delle persone: se il soggetto che si occupa delle questioni ambientali, del bilancio di sostenibilità, del greenwashing o della sicurezza alimentare dovesse essere certificato come persona, ciò costituirebbe un grande valore aggiunto sul mercato del lavoro, per le imprese, per la qualità del loro rapporto con l’ambiente e per la produttività.

La seconda sfida che vedo riguarda il D.Lgs. 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa degli Enti e obbliga società e imprese a riferirsi a meccanismi di compliance generale a livello interno. Questi meccanismi potrebbero rappresentare un bacino unico di riferimento, per quella famosa semplificazione del sistema di accreditamento e certificazione necessaria alle imprese per operare sul mercato in maniera più efficace e veloce.

Qual è il rischio? Una disparità di concorrenza a livello globale. Ci sono Paesi dove le misure a tutela dell’ambiente, della sicurezza dei lavoratori, della sicurezza pubblica e alimentare sono ignorate. Questo comporta una spinta concorrenziale che si riversa sui consumatori e soprattutto sulle imprese che operano correttamente in aree dove queste misure sono obbligatorie, generando uno svantaggio competitivo.

In questo contesto, il ruolo internazionale dell’accreditamento non può che essere un punto di arrivo fondamentale, uniforme, capace di garantire concorrenza leale per le nostre imprese.

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